Conferenza Integrale - Società, Religioni, Diritti

December 15, 2025 01:59:15
Conferenza Integrale - Società, Religioni, Diritti
Giornata Mondiale della Filosofia 2025
Conferenza Integrale - Società, Religioni, Diritti

Dec 15 2025 | 01:59:15

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Show Notes

Registrazione integrale della conferenza “La Filosofia di fronte alle opportunità del futuro” per la Giornata Mondiale della Filosofia 2025, organizzata dall’Università di Genova e dall’Associazione Filosofica Ligure.

Tavole rotonde, interventi e dialoghi sui temi più attuali: crisi climatica, diritti, tecnologia, transumanesimo, religione, linguaggio e antropocene. Una riflessione sul ruolo della filosofia nel guidare pensiero critico, responsabilità e progettualità verso il futuro.

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Episode Transcript

[00:00:00] Speaker A: Allora prima di entrare nel merito della nostra sessione mi unisco ai ringraziamenti già espressi più volte oggi e quindi innanzitutto ringrazio la professoressa Simona Langella che ha il grande merito di aver ideato e costruito questa giornata, l'Associazione Filosofica Ligure, il Comitato Scientifico e Organizzatore Tutto, chi è presente qui ma anche chi è presente dal remoto che è parte integrante di questa giornata. Viviamo in un tempo in cui le categorie tradizionali sembrano spesso insufficienti, si trasformano velocemente le forme della convivenza, cambiano gli spazi, cambiano i linguaggi in cui abitiamo, quindi emergono nuove forme di sensibilità etiche e conflitti interpretativi. E questa necessità di ripensare le categorie non deriva soltanto da mutamenti del presente, ma anche dal confronto sempre più inevitabile, direi, con categorie provenienti da altre grandi culture, quindi modi diversi di pensare il mondo e l'individuo e questo ci obbliga a tenere in movimento i nostri strumenti interpretativi. E la filosofia, e questo è il valore del nostro ritrovarci oggi, non ha, come sappiamo, il compito di fornire risposte immediate, ma quello di aprire possibilità. La mattina ci ha già offerto numerosi stimoli, si è parlato del postumano, del transumano, dell'antropocene, responsabilità, teodicea, la filosofia di Hersch. Il tema generale di questa sessione è società, religioni, diritti ed è un tema che, come vedremo, attraversa nodi strutturali del nostro presente. Quindi inizio a presentare il primo relatore, che è il professor Sebastiano Ghisu. Sebastiano Ghisu è professore associato di storia della filosofia presso l'Università degli Studi di Sassari. è fondatore e direttore editoriale assieme ad Andrea Tallapietra del giornale critico di storia delle idee. Le sue ricerche vertono sulle teorie del soggetto, su cui i momenti in cui il pensiero si è posto come presa di distanza dal mondo o come critica del mondo. Tra le sue pubblicazioni ricordo Georg Simmel, l'ideologia dell'individualità, del millenovecentonovantuno. Storia dell'indifferenza duemilasei breve introduzione della storia critica delle idee e soggetto e possibilità e ora gli lascio volentieri la parola il titolo della sua relazione è individuo storia società per una critica alla morale e alla teoria dei diritti. [00:02:47] Speaker B: Grazie eh acceso? Si sente? [00:02:54] Speaker C: Ah, si senta, perché a me sembra di no. [00:02:56] Speaker B: Va bene, grazie ancora, grazie per l'invito, naturalmente anche complimenti alle organizzatrici e all'organizzatore di questo, insomma, evento molto interessante. [00:03:06] Speaker C: Spero che la mia relazione devi essere. [00:03:08] Speaker B: All'Altezza, diciamo così, della relazione molto interessante di stamattina. Allora, io comincio un po' rendendo ragione, per così dire, del sottotitolo, poi anche del titolo, cioè per una critica alla morale e alla teoria dei diritti. Allora per critica intendo non tanto un come dire abbattimento quasi una demolizione della teoria dei diritti o della morale, ma in realtà una delineazione dei loro limiti, in un senso quindi etimologico dell'espressione o della parola critica, in un senso kantiano quasi, no? Un senso poi etimologico fondamentalmente, cioè l'individuazione, la capacità di distinguere, quindi di delimitare in questo caso la teoria dei diritti o l'idea dei diritti e del diritto anche peraltro, anche quello della morale. Per fare ciò mi concentro su alcuni concetti chiave, che sono quelli appunto indicati nel titolo, cioè individuo, storia e società. Allora, sono i concetti base appunto. Allora comincio dal concetto di individuo. Intendo per individuo un'entità, diciamo così, che non può che essere soggetto, quindi l'individuo in quanto soggetto. Se parlo quindi di individuo in quanto soggetto, intendo l'individuo in quanto appunto partecipe di una ideologia o di un senso comune, ovvero l'individuo che possiede un'identità, può essere un'identità di genere, un'identità sociale, culturale, linguistica e così via. Quindi l'identità nel senso anche dell'immediato che istituisce l'individuo. Tutto ciò che noi facciamo quasi senza pensarci, nella nostra immediatezza quotidiana, spontanea, costante. [00:04:50] Speaker C: In un certo senso. [00:04:50] Speaker B: Ciò che assumiamo come scontato, che facciamo appunto e pensiamo anche senza pensarci in un certo senso. Anche il senso comune in un'accezione kramshana sarei tentato di dire. Allora non si dà individuo che non sia soggetto, in questo senso. Ma tuttavia è precisato, e questo è un punto centrale della mia riflessione odierna, che il soggetto è decentrato rispetto all'individuo, ovvero che eccede l'individuo ed è più ampio, per così dire, rispetto all'individuo. Allora cito a questo punto Lacan proprio in relazione a questo concetto dell'individuo, del soggetto decentrato rispetto all'individuo. Lacan scrive, cito, che il soggetto non si confonde con l'individuo, fine citazione, ma è, cito, decentrato rispetto all'individuo, quindi l'espressione di origine lacaniana. Affermazione che viene poi ripresa da Louis Althusser, negli anni 60 naturalmente, Quando, riferendosi a Freud tuttavia, scrive, cito, Freud appunto ci rivela che il soggetto umano è decentrato, costituito da una struttura avente essa stessa un centro soltanto nelle formazioni ideologiche in cui si riconosce. Chiusa, fine citazione. Ciò significa innanzitutto che la dimensione biologica nell'essere umano è integralmente, in questo contesto, sovradeterminata dalla dimensione che potremmo definire simbolica o ideologica, che è comunque materiale evidentemente. E come tra il simbolo e il suo referente, o più esattamente tra il codice simbolico e il mondo di riferimento, non vi è che è un rapporto puramente convenzionale, ma di meno storica naturalmente, così vi è un rapporto convenzionale tra l'identità e il corpo. nessun'identità è data biologicamente o, il che è lo stesso, naturalmente. L'essere umano è integralmente un essere simbolico e il simbolico non è deducibile dal naturale. Le differenze che noi assumiamo come naturali, o le differenze date biologicamente per esempio, per prima, per esempio quelle tra i sessi, hanno sempre solo carattere biologico e quindi storico, mutevole, non originario. E qua naturalmente è scontato richiamarsi alle riflessioni di Judith Butler in modo particolare, quindi il femminismo queer, come si dice oggi. In tal senso l'individuo viene istituito come soggetto con una specifica identità. Questa gli viene attribuita, non è una originaria che precede questa attribuzione. L'identità è dunque una maschera dentro la quale, o dietro la quale piuttosto, non si dà alcun volto originario o autentico. Il soggetto è interiormente maschera. E se, come si è detto, è decentrato rispetto all'individuo, vuol dire che la maschera che esso è, che il soggetto è, è più ampia dell'individuo che per così dire l'indossa, o piuttosto che essa è indossata, significa che è indossata da più individui, da una collettività e da carattere storico. La maggiore ampiezza della maschera rispetto all'individuo che la porta, il suo decentramento, Si estende dunque sia nell'asse diacronico-verticale storico, per così dire, sia in quello sincronico-orizzontale, la collettività presente cui si partecipa. Si danno qui naturalmente delle stratificazioni, spesso molto antiche, che solo un'archeologia dell'identità o soggettività potrebbe in qualche modo rilevare. dell'essere soggetto va dunque rimarcata la dimensione collettiva e storica, questo è un punto centrale della mia riflessione. Ciò significa che si ha sempre in sé, in qualche modo, la storia della collettività in cui veniamo a trovarci. Questa, che ci piace o meno, non è l'altro questa collettività, o semmai appunto è l'altro che è in noi. Non si è mai tanto individuo da non essere collettività. Certo, in apparenza non si può negare l'identità individuale, i suoi confini, quella propriamente detta. Si direbbe che i suoi limiti coincidono con i limiti dell'individuo biologico. In fondo io mi sento io come tale, mi sento io separato, staccato da altri io. Sono io che teme, che desidera, che ama, che odia e così via. Sono io che provo gioia o dolore. Quindi come non partire da questo io? Allora in effetti quando si parte da questo io, e in un certo senso lo si assolutizza, come spesso accade, si resta ingabbiati in uno spazio di disconoscimento, nel quale si può certo raccontare o descrivere, ma non conoscere. Per conoscere l'io deve individuare l'altro che lo costituisce, ovvero deve individuare il soggetto, la maschera o le maschere che l'istituiscono e al di qua delle maschere le dinamiche storiche e collettive che a loro volta istituiscono tali maschere. Il fatto che ci si vive come individuo in senso stretto, e che questo sembri condizionare il proprio essere nel mondo, per esempio nel rapporto con la morte, non significa che come individuo isolato ci si conosca. Ed il mio stesso rapporto con la morte, ad esempio, è condizionato dalla soggettività che mi abita, oltre che dalle dinamiche che sono comunque sottratte al mio controllo. Nel senso, tuttavia, questo è un punto importante, che il controllo che ho di me stesso è dato dalle stesse dinamiche che mi hanno istituito. Essere soggetto significa in effetti che si vive se stessi e con se stessi in quello spazio di disconoscimento e se come si è detto si è sempre già soggetto e questo soggetto è l'immediato lo è anche in quanto esso si vive immediatamente e inevitabilmente come entità spontanea, causa di se stesso, causa del proprio agire e non come ciò che realmente è, cioè un effetto. Essere soggetto significa allora rappresentarsi e viversi come centrate rispetto all'individuo biologico, al corpo che si è e che si continua ovviamente ad essere. Significa insomma immaginare che il soggetto, che noi siamo, sia concentrico all'individuo biologico. Immaginare nel senso dell'immaginazione, anche in un senso quasi spinoziano, come se i confini della mia soggettività fossero i confini del mio corpo. E non è così invece, a mio avviso. Ora naturalmente l'individualità nella sua piena e talvolta anche drammatica, estrema singolarità e originalità esiste. Non di meno essa è prodotto di molteplici e complesse dinamiche storiche e collettive. Sono tali dinamiche che generano, convergendo, una singolarità originale. Ma qui la singolarità dell'effetto, data certamente anche dal suo risiedere entro i confini dell'individuo biologico, rende l'effetto come tale invisibile o meglio lo fa apparire come causa lo scambia per la causa in tal senso il soggetto concreto pur sapendosi effetto nel senso che la conoscenza lo conduce ad assumersi come tale continua a viversi disconoscendosi come causa la conoscenza dell'immediatezza non genera la sua dissoluzione allora D'altra parte, se il soggetto individuale si vive strutturalmente sempre come causa di sé, quasi, potremmo dire, come sostanza, senso classico, causa sui, i modi con cui rappresenta a sé stesso questo suo essere, causa di sé, variano nel corso della storia e sono dati esattamente, di volta in volta, dalla soggettività collettiva o ideologia che lo ha istituito, lo abita. variano per così dire le interpretazioni del suo immaginarsi causa di sé. In tal senso l'individualismo moderno, un dato scontato in apparenza, ha certo una base reale nel modo di produzione capitalistico, che ha dissolto i legami di sangue, di casti e così via, ma nel contempo una corrispondente base immaginaria nell'ideologia di quel modo di produzione che induce l'individuo, istituendolo in soggetto, a pensarsi come individuo isolato, autonomo, giuridicamente e moralmente responsabile di se stesso, l'homo economicus che alla fin fine e sin dall'origine, per così dire, può contare solo su se stesso. Per certi versi si potenzia ulteriormente l'idea immaginaria secondo la quale si è causa del proprio agire e insomma, quindi ci si disconosce, ma è un'idea che resta non di meno immaginare. Allora, in effetti, con il modo di produzione capitalistico si diffonde in Europa l'ideologia che immagina il superamento dei vincoli sociali, culturali, economici e così via giuridici delle precedenti forme di soggettività come raggiungimento di una situazione in cui finalmente l'individuo può ben definirsi causa del proprio agire. Ci sarebbe in effetti ciò che ci si immagina ad essere. Tuttavia, la percezione di vincoli da parte del soggetto è data dalla forma stessa e dalla sua costituzione, dai meccanismi stessi che lo istituiscono come tale. Tali meccanismi possono apparire un vincolo o una costrizione a partire da un'altra forma di soggettività. in altri termini. Quando alcune forme di costituzione della soggettività appaiono come vincoli, vuol dire che storicamente sta emergendo, o è comunque presente, un'altra forma di soggettività. Allora, a questo punto emerge il tema dei conflitti, nel senso che non sarebbe corretto affermare che ogni epoca ha una sua sola forma di soggettività, o che ve n'è, per così dire, una alla volta. Infatti, se la storia della collettività in cui veniamo a trovarci è un insieme attraversato da tensioni e conflittualità, a tali tensioni e conflittualità il soggetto prende parte e ne è comunque parte, ne partecipe, ne è effetto. Che ne sia consapevole o meno, questo poco importa. Se poi la società è costituita da rapporti di dominio, rapporti di dominio dati da rapporti di classe, di generi, coloniali, territoriali e ovviamente da loro intrecciarsi e intersecarsi, tali rapporti di dominio entrano a pieno titolo nella costituzione della soggettività e dell'identità. Il domino, infatti, che è innanzitutto reale e concreto, non si riproduce tanto attraverso semplici meccanismi di costrizione o repressione, quanto proprio generando soggettività o identità ad esso adeguate. soggettività che lo assumono, che assumono il rapporto di dominio come naturale e necessario, o addirittura come costitutivo della propria identità. Se dunque la parte dominante vive come naturale il dominio che essa esercita, altrettanto è indotta a fare la parte dominata, che in quel dominio, per certi versi, si identifica addirittura. La parte dominante giustifica la subalternità, per esempio, come conseguenza naturale dell'inferiorità, comunque intesa la parte dominata, che citate, del proletario che non può che svolgere lavori di dipendenza, incapace di amministrare la ricchezza prodotta, della donna che per sua natura non può servire il maschio, il patriarca, o del colonizzato che vive ancora, in realtà non può che vivere, data la sua natura e fisiologia, in una situazione di inciviltà e arretratezza. Allora, da tutto ciò risulta, lo abbiamo in realtà già constatato, che il soggetto va assunto come un effetto. e di conseguenza anche l'identità. Qui subentra tuttavia non solo la dimensione storica e collettiva, che è comunque sempre presente, quanto anche quella individuale o singolare in senso stretto. la propria biografia, se n'è parlato anche stamattina, la propria storia, insomma, personale potremmo dire, tutto ciò che si nel dettaglio, sarei tentato di dire, rende un soggetto individuale, ciò che egli è, insomma, nella sua individualità. Ciò significa che per conoscere il soggetto individuale bisogna spostare lo sguardo dal soggetto stesso alle sue condizioni di possibilità e a quei meccanismi o dinamiche che lo hanno prodotto. La portata di tale spostamento dello sguardo, dello sguardo cognitivo, è più ampia di quanto possa apparire a prima vista e coinvolge anche la quotidianità, sollecitandoci a guardare sempre nell'altro ciò che ho di fronte, nell'altro che ho di fronte, il più possibile ciò che lo ha reso tale, anche in ogni singolo comportamento. L'ideale sarebbe spostare lo sguardo appunto dal soggetto che commette quell'azione alle condizioni che hanno reso possibile al soggetto di commettere quelle azioni. Ma al di là della dimensione individuale, se si vuole anche esistenziale, che è complessa, la portata di quello spostamento significa che non ci si può appellare alla soggettività per promuovere delle trasformazioni ritenute necessarie, ma richiamarsi piuttosto alle condizioni che lo producono. Altrimenti ancora una volta si scampia, come si è già detto, la causa con l'effetto, condannandosi all'impotenza, sia cognitiva che pratica. Vi è tuttavia un paradosso qua che non possiamo non ribadire, a mio avviso. Tanto il soggetto effetto quanto inevitabile strutturale che esso si assuma e si viva spontaneamente, immediatamente, in quanto tale come causa di sé. Anche quando si sa effetto, si sente inevitabilmente causa. Spontaneamente ho sento di agire, no? Di agire come io voglio, in certo senso. Non è che si subisca, come dire, apparentemente una costruzione. Non è questo, in un certo quel modo. Ecco, quindi c'è questa inevitabilità del sentirsi causa di sé, pur non essendolo, se vogliamo conoscerci. Ad agire, si direbbe, sono comunque le molteplici condizioni di possibilità del soggetto, ma agiscono senza perire come tale, o meglio, apparendo come una scelta incondizionata del soggetto stesso. Si potrebbe anche aggiungere che, per altri aspetti, tale illusione o finzione è nella pratica necessaria. Ciò accade, ad esempio, nell'attribuzione della responsabilità penale. Possiamo chiederci, può il governo della società non ricondurre una qualche azione penalmente rilevante a chi l'ha commessa? Poi, in altri termini, operare cognitivamente e guardare le condizioni, pressoché mai immediatamente visibili, che attraverso il soggetto individuale che l'ha commessa l'hanno resa possibile in quella determinata azione. In qualche modo, quindi, bisogna mettere punto. Allora, cosa significa? Che l'attribuzione di responsabilità penale, per esempio, è tenuta a bloccare la ricognizione della rete complessa di tali condizioni di possibilità in un punto di soggettività che immagina necessariamente come responsabile. In qualche modo quasi inevitabile trattare per così dire il soggetto come causa, per esempio, nel momento in cui sono tenuto, dal punto di vista anche della convivenza sociale, di individuare un responsabile in una causa. il che però fa, come dire, violenza alla necessità di conoscere la causa reale, storica di quella azione commessa. Quindi bisogna sempre procedere al di dietro, però in qualche modo si potrebbe dire la società deve mettere il punto e individuare invece un responsabile. Il diritto penale, peraltro, si rende conto di questo per certi versi, tuttavia a un certo punto deve cessare di procedere nel senso dell'individuazione delle cause reali. Questo vale anche a livello collettivo, peraltro, in qualche modo. Accade anche a me, direi per quanto riguarda gli eventi storici che ci stanno adesso attraversando, ma adesso vado oltre per non togliere del tempo. Allora, diciamo anche che poi ci sono molte riflessioni, peraltro, per quanto riguarda appunto il carattere sanzionatore del diritto penale, alcune riflessioni del pensiero critico moderno che mettono in discussione, per esempio, l'idea, la stessa idea di penitenziario, di prigione da Foucault a Mike Davis fino ad Angela Davis, ma insomma adesso lasciamo da perdere queste riflessioni. Vediamo la teoria dei diritti, perché questo è il punto che ci interessa maggiormente. Allora, l'idea dei diritti, uso il plurale per circonscriverle rispetto all'idea generale di diritto, da cui comunque derivano, è fondata nel viso sull'idea o l'ideologia dell'individuo realmente o potenzialmente proprietario, isolato, astratto, causa di se stesso, staccato da ciò che lo rende comunque soggetto storico e sociale, collettivo fondamentalmente. Con la teoria dei diritti si ha, per così dire, una privatizzazione dei bisogni o una individualizzazione della dimensione storica e sociale dei bisogni. Di fronte alla realtà storica e sociale del soggetto individuale, si pone il carattere individuale e individualizzante dei diritti. Ed è questo i loro limiti, di cui parlavo all'inizio, giustificando per così dire la scelta del sottotitolo, cioè la critica attuale dei diritti. E se i processi emancipativi richiamano i diritti, inevitabilmente, abbiamo allora la situazione per cui, se la realtà del soggetto è sempre e comunque collettiva, e i diritti invece assumono l'individuo come isolato, lo stesso processo emancipativo non può non andare oltre la logica dei diritti. La lotta per i diritti, soprattutto se è esclusiva, si colloca strutturalmente in un quadro di libertà e opportunità individuali, alla fine può tutt'al più operare un contenimento dei danni generati da un determinato rapporto di dominio. L'effettiva emancipazione da un rapporto di dominio non è dunque la somma, e non va intesa come la somma delle emancipazioni individuali, ma all'inverso le emancipazioni individuali sono il prodotto dell'emancipazione collettiva, dell'emancipazione di quelle collettività a cui le singolarità appartengono, o cui le singolarità partecipano. Vediamolo alla dimensione morale, l'altra parte, cioè la critica alla teoria della morale o alla morale. Anche nella dimensione morale, in effetti, la finzione soggettiva, l'illusione che il soggetto sia causa del proprio agire emerge come inevitabile, per quanto in termini differenti. La morale stessa, in quanto tale, fondata su quella finzione soggettiva o della soggettività autonoma, causa di se stessa, implica un soggetto che sceglie autonomamente e liberamente Del resto la ristrettezza degli spazi e dei tempi esistenziali nei quali ci muoviamo, come dire l'orizzonte limitato, che non può certo arrivare ad abbracciare l'interezza delle condizioni di possibilità del nostro agire o dell'agire altrui, ci impongono di accedervi e permanervi assumendone i limiti e pensando il soggetto come fonte libera e responsabile del proprio agire. In tal caso vi è una convergenza tra l'inevitabile sentirsi causa di sé e il necessario assumersi come tale. Inoltre, nelle interazioni sociali e interindividuali, non possiamo escludere la dimensione morale, nell'incitare gli altri ad agire moralmente, per esempio nella pratica educativa, e comunque nel pretenderlo. Insomma, pur sapendo la morale un prodotto storico e contingente, nel viverla l'assumiamo come universale necessaria. Pur assumendola come effetto, la viviamo come causa, per così dire, o incitazione. Ma la morale stessa non di meno resta un effetto e resta il primato del cognitivo che la individua esattamente come effetto. È la conoscenza che infatti ci conduce ad individuare le reali condizioni di possibilità dell'agire morale nel momento in cui la piena realizzazione della morale per certi versi il raggiungimento di una situazione in cui essa arriva ad essere superflua, è possibile agendo sulle condizioni di possibilità dell'agire soggettivo, ovvero sui meccanismi reali di costituzione delle soggettività e, ancora prima, sui rapporti sociali di produzione e riproduzione che generano quei meccanismi. Si potrebbe qui parlare di potente impotenza della morale o della sua impotente potenza, se vogliamo. Essa ci può infatti potentemente collocare in una posizione critica che può tuttavia acquisire piena efficacia e potenza procedendo oltre alla morale, verso la pratica cognitiva e conseguentemente quella trasformativa, quella pratica trasformativa. Limitarse la morale significa in ogni caso rinunciare a quella trasformazione del reale cui la morale stessa, errando in percorsi senza fine, aspira. Ed una sua assolutizzazione impedisce ed ostacola lo sguardo cognitivo che è l'unico a poterci guidare efficacemente. D'altra parte, una assolutizzazione di tale sguardo è di fatto pressoché impossibile, dato che siamo comunque costantemente chiamati ad agire moralmente. Si direbbe allora che il dualismo tra conoscenza e morale sia insuperabile. Ecco, domandiamoci se è proprio così. Allora, in effetti, portando conto del dualismo che permane, si tratterebbe di capire qual è l'effetto dello sguardo cognitivo sull'agire e sul giudicare morale. Si dovrebbe allora sottoporre il giudizio di un'azione alla conoscenza delle sue condizioni di possibilità, rendersi conto che occorre agire su di esse per rendere ad esempio una determinata azione, giudicata negativamente dal punto di vista morale, impossibile o viceversa, possibile e reale, un'altra valutata positivamente. Pretendere da un soggetto, sia esso collettivo o individuale, un altro comportamento è strutturalmente un appello che cade nel vuoto se non si producono, o se non si promuove piuttosto nel contempo, un processo di trasformazione delle sue complessive condizioni di possibilità. Ne emerge infine che la morale più autentica ed efficace è quella che presuppone la conoscenza, intesa come condizione dell'agire politico. Per lo stesso motivo per il quale le identità morali sono un effetto del contesto storico collettivo e non la causa, e non vanno dunque naturalizzate o assunte come originarie, per tale motivo la moralità presuppone la trasformazione di quel contesto storico collettivo. Potremmo quasi concludere richiamandoci a due paradigmi centrali della filosofia moderna, che nell'agile morale non si può che essere kantiani, pur sapendo spinozianamente, quindi essendo spinoziani, pur sapendo spinozianamente che solo la conoscenza e dunque la pratica che ne consegue può indirizzarsi a ciò che per Kant stesso era il sommo bene, cioè la corrispondenza tra moralità e felicità. Il primato della conoscenza allora ha senso solo in quanto preludio necessario alla trasformazione del reale, ma ha senso solo quella trasformazione del reale che conduce ad una emancipazione radicale da qualsiasi forma di dominio. Grazie. [00:27:49] Speaker A: Grazie molte, professor Ghisu, anche per la chiarezza con cui ha delineato il quadro teorico. Passiamo alla seconda relazione. il professor Michele Abate che qui non avrebbe bisogno di presentazioni. Michele Abate è professore associato di storia della filosofia antica presso il nostro Ateneo, è stato borsista dell'Alexander von Humboldt Stiftung presso l'Università di Würzburg e si occupa in particolare della tradizione platonica e del pensiero oppressocratico. Tra i suoi lavori ricordo Parmede e gli Unio Platonici, dall'essere all'uno e al di là dell'uno, nel 2010, e per la collana dei classici bonpiani i volumi Proclo, Commento al cratilo, Proclo, Teologia platonica. Il titolo della sua relazione è Natura e funzione socio-culturale del linguaggio, un confronto tra prospettive antiche e contemporanee. Le lascio volentieri la parola. [00:28:51] Speaker D: Grazie molte, grazie di cuore. Ringrazio anche ovviamente Simona Langella e Marco Damonte per questo invito che per me è stato veramente piacevole accettare ed accogliere, tanto più che è da poco che sono qui a Genova e quindi questa per me è una bella occasione insomma di inserirmi ulteriormente in questo tessuto connettivo, direi, culturale e sociale anche, per molti aspetti. Vorrei partire da alcune considerazioni che, tra l'altro, questa mattina sono in qualche modo emerse, partendo proprio dalla prospettiva antica, da una prospettiva che ha origine nel pensiero presocratico, quindi alle origini della tradizione greca, e che si sviluppa pienamente poi con la riflessione platonica e in età pienamente classica, nell'Atene classica tra quinto e quarto secolo, anche nella riflessione del grandissimo storico Tucidide. Vorrei partire da una considerazione piuttosto banale, cioè che nella dimensione del linguaggio si riflette con grande chiarezza l'evoluzione culturale, politica, sociale e per certi versi anche religiosa di una civiltà o di una tradizione di pensiero. Ciò trova conferma nella nota ipotesi sviluppata nella prima metà del XX secolo da Sapir e Worf, la nota ipotesi della relatività linguistica, che parte in sostanza dalla constatazione in base alla quale il linguaggio non può essere considerato solo uno strumento neutro di comunicazione e di dialogo, per così dire, ma condiziona nella sua struttura... Forse, ok, chiedo scusa. Forse così è meglio. Ma condiziona, dicevo profondamente, la natura del linguaggio in modo essenziale, il modo stesso di pensare. Il pensiero è condizionato, secondo questa tesi di Sapir e Wolf, nelle sue strutture profonde. Potremmo dire, in sostanza, che le strutture lessicali e morfologiche di una lingua orientano in larga parte la nostra percezione del reale nelle sue varie e molteplici articolazioni. Questa è la dimensione del relativismo linguistico. Dal riferimento relativamente contemporaneo alla tradizione linguistica occidentale che ho fatto precedentemente, Va comunque aggiunto che questo tipo di prospettiva in realtà è costitutiva della tradizione greca, in particolar modo nella fase classica del pensiero greco, in particolar modo ad Atene, caratterizzato dal noto movimento sofistico. La sofistica, la tradizione sofistica che impronta la propria teoria della natura del reale, del rapporto tra reale e uomo caratterizzata profondamente dalla consapevolezza del relativismo culturale linguistico e gnosiologico la famosa frase se ricordate di protagora come misura di tutte le cose però attenzione finisce non è così semplice il detto di protagora delle cose che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono vedete già in questa formulazione originaria è presente in qualche modo la determinazione di una stretta connessione fra comprensione del mondo e strutture lessicali in grado di esprimere quella dimensione, quella connotazione di descrivere la struttura del mondo. D'altra parte un altro problema enorme nella dimensione antica è la constatazione che il linguaggio ha una dimensione storica, ovvero il linguaggio è soggetto a continue e profonde trasformazioni, soprattutto sul piano lessicale semantico, sotto l'influsso di fattori sociali, culturali, politici e religiosi. E in una sorta di circolo vizioso, potremmo dire davvero di Teufelkreis, Il linguaggio determina il nostro modo di percepire la realtà, ma al contempo è condizionato esso stesso dalla realtà socioculturale in cui ci troviamo a vita. Per cui è veramente una sorta di relazione biunivoca quella della determinazione gnosiologica del linguaggio e di come il linguaggio determina le nostre strutture conoscitive. Si può comprendere per quale motivo la riflessione occidentale sulla natura del linguaggio sia stata fin dalle origini subordinata a molteplici fattori spesso contrastanti di natura sia religiosa sia socio-culturale proprio prendendo in considerazione la riflessione linguistica nel contesto della Grecità. Il noto studioso di pensiero antico Walter Leszl, in un suo lavoro del 1985, osservava opportunamente quanto segue. In tutta la storia del pensiero greco e di quello romano non si riscontra quasi mai un approccio strettamente linguistico alla realtà del linguaggio. Il linguaggio viene preso in considerazione strutturalmente e sostanzialmente attraverso altri parametri. e senza dubbio potremo completare questa osservazione di Lesl, la riflessione antica sul linguaggio appare nella sua storia profondamente condizionata da particolari visioni del mondo, riconducibili in realtà a forme di pregiudizi nel senso gadameriano di precomprensione di natura culturale, religiosa, politica e anche sociale. D'altro canto, la concezione secondo cui le lingue sono realtà storicamente determinate, quindi soggette a processi intrinseci di mutamento di carattere culturale, sociale e storico, è alla base della linguistica moderna e in particolar modo della glottologia, che proprio a livello strutturale indaga la natura delle lingue, in particolar modo nel nostro contesto indeuropeo. Queste considerazioni risultano particolarmente significative per spiegare un notevole ritardo all'interno della tradizione occidentale rispetto ad altre forme di sapere con cui si è sviluppata un'indagine linguistica rigorosamente scientifica, quindi svincolata da forme di pregiudizio religioso e culturale. La linguistica intesa come disciplina autonoma rappresenta infatti una conquista relativamente recente. E nell'ambito della grecità è soprattutto l'ipoteca teorica del pensiero arcaico sulla natura del linguaggio ad aver determinato in gran parte la riflessione successiva. Ma cosa si intende per prospettiva arcaica? molto complesso sintetizzarlo però nella forma arcaica della concezione del linguaggio si intende un rapporto diretto biunivoco fra nome e cosa. Il nome è la cosa e la cosa è il nome. è quella che in termini tecnici, con un prestuto dalla fisica e dalla chimica, viene definita come, dai linguisti, coalescenza di parola, essere e realtà. È proprio una modalità di pensiero antico. il possedere il nome significa possedere la cosa, è una concezione presente non solo in ambito indoeuropeo ma per esempio anche pensate all'attributo dell'India americana o degli indiani americani scusate o dell'India pre-rivedica per così dire. Quindi appartiene a una tradizione estremamente articolata e complessa, questa modalità di concezione della realtà, attraverso il rapporto diretto fra nome e cosa. Ed è uno dei temi, per chi conosce il dialogo, centrali nel cratero di Platone. Da qui, capite, diventa essenziale un problema enorme per gli antichi, ovvero la consapevolezza del divenire del linguaggio. se esistesse effettivamente come vuole il pensiero arcaico un rapporto diretto di rivelazione da parte della parola in rapporto alla realtà come si giustificherebbe allora il divenire del linguaggio allora la realtà stessa è instabile allo stesso modo in cui strutturalmente instabile è il linguaggio e per gli antichi è un problema enorme il valore rivelativo del linguaggio è un elemento che troviamo trasversalmente nel pensiero pressocratico. Pensate a Heraclito, i giochi etimologici, pseudo etimologici, para etimologici, originariamente non c'è ancora la parola etimologia per Heraclito. ma la relazione bios, di cui si parlava prima, vita, e bios, che è l'arco, che è l'opposto della vita, per cui procura la morte, in questa concezione dell'unione degli opposti che, come sapete, è tipica della concezione, per esempio, eraclitea. Per molti aspetti, la consapevolezza del divenire delle parole, del divenire del linguaggio, finisce per aprire la vita a quello che è uno dei concetti moderni più significativi e importanti. della linguistica attuale, della linguistica contemporanea, ovvero la nozione della arbitrarietà del segno linguistico. Parlo ovviamente di cose notissime che, come sapete, è stato sviluppato da Ferdinando de Saussure all'inizio del Novecento, è un tema centrale. Questo tipo di nozione appare totalmente estranea alle strutture originali del pensiero arcaico. Eppure, come vorrei cercare di mostrarvi oggi, c'è una fase del pensiero antico che è pienamente consapevole dell'arbitrarietà del segno linguistico. Credete, se noi diamo retta alla ipotesi del relativismo linguistico, capite che determinare la natura relativa del linguaggio significa problematizzare la natura stessa della realtà. In questo gioco dialettico è difficilmente solubile risolvere. Il carattere arbitrario del segno linguistico, strettamente connesso al tema del divenire delle parole, diventa centrale nella riflessione di quei due autori cui ho accennato poco fa, Platore e indirettamente poi anche Aristotele. da prospettive diverse, entrambi concepiscono il linguaggio come dimensione determinata storicamente. È una rivoluzione nella concezione del linguaggio antico. Non troviamo tracce, prima di Tucidide e Platone, di una concezione di questo genere. Nel caso di Tucidide abbiamo un esempio testuale, a mio avviso, di una modernità e di un'efficacia assolute. il terzo libro della guerra del Peloponneso, il capitolo 82. Che cosa racconta questo capitolo? È la famosa descrizione della guerra civile di Corcira, la Stasis di Corcira. e Tucidide attraverso una sorta di approccio in senso moderno e direi quasi usserliano, fenomenologico usserliano, esamina qual è il manifestarsi diretto di questa modalità della stasis all'interno di un contesto sociale e culturale ben preciso. Tucidide Nel capitolo 82 di cui vi dicevo del terzo libro della guerra del pelotonponneso descrive attraverso un'analisi linguistica che per l'epoca è incredibile quali sono gli effetti che la stasis, la guerra civile, implica a livello di sovvertimento dei valori e della visione della realtà. Sentite cosa scrive. Siamo proprio all'inizio del paragrafo quarto del capitolo 82 del terzo libro. Anche il valore usuale, la traduzione è mia ma è letterale, anche il valore usuale delle parole in rapporto alle azioni i sediziosi lo scambiarono secondo il proprio arbitrio. L'audacia sconsiderata, tolma a Logistos, fu riconosciuta come coraggio, Andrea, l'opposto, capite? E il previdente indugiare, viltà de lia, ben mascherata e la temperanza, pensate al concetto di soffrugione, la valenza che ha per esempio in Platone, l'ornamento esteriore del vile è un capovolgimento, è un mondo al contrario, è un mondo degli adunata di cui Tucidide diventa pienamente consapevole. E in questo passo cosa fa Tucidide? anticipa in modo radicale una concezione che troviamo nella moderna linguistica strutturale, la nozione di Fershibung semantica, conoscerete la Lautfershibung, la rotazione fonetica, allo stesso modo strutturalmente il cambiamento semantico all'interno di un sistema comporta il trasferirsi di significati diversi a parole diverse, costruendo un sistema articolato e modificato sulla base di queste specie di effetto d'onda prodotto all'interno di un medesimo sistema. In sostanza il valore di determinate parole finisce per essere determinato conseguenzialmente da aggiustamenti e riorganizzazioni complessive all'interno di tutto il sistema lessicale. e questo è l'effetto che Tuccili decoglie in una sorta di sovvertimento del lessico etico che si manifesta in un sovvertimento della realtà ed è un concetto assolutamente estraneo al mondo orcaico. Se noi pensiamo a Esiodo o al lessico etico religioso di Eschilo, per esempio, vediamo che le polarità, le bipolarità strutturali, linguistiche, bene e male, giusto e ingiusto, sono strutture fisse, indubitabili, garantite dal divino, garantite dal ruolo quasi tirannico ma positivo di Zeus nell'ordine delle cose. In Tucidide questa struttura viene totalmente meno, si disintegra e Tucidide è perfettamente consapevole di questa disintegrazione. È uno storico che non è solo moderno, è uno storico che anticipa tematiche filosofiche che caratterizzano secoli successivi. Potremmo dire che nel cosmo etico-arcaico l'ambito della morale e i campi semantici corrispondenti sono fortemente ancorati in base alla dimensione del divino e garantiti da questa dimensione. In Tucidide invece il manifestarsi di uno scontro politico-culturale distruttivo e radicale conduce alla dissimmetria. ovvero a quella forma di caos etico e simantico che si riflette in quella che possiamo chiamare l'astasis delle parole, cioè la guerra civile, il conflitto intrinseco del linguaggio che perde le proprie strutture, i propri orizzonti di senso. In un contesto simile a quello trucidideo, ma in una prospettiva fortemente platonica, e quindi filosofica, nell'ottavo libro della Repubblica, Platone descrive la degenerazione che abbiamo dalla costituzione dello Stato ideale, della Callipoli, progetto politico di Platone, che è inevitabile agli occhi di Platone in quanto dimensione del divenire, che condurrà alla forma estrema e distruttiva della tirannide. La tirannide, per chi ha una idea della struttura della repubblica, è in sostanza, come la descrive Platone, la risposta definitiva a Trasimaco che affermava che il giusto è l'utile del più forte. è il vantaggio del più forte. La descrizione fenomenologica da parte di Platone del modo in cui si contraddistingue la tirannide è la risposta a questa affermazione di Trasimaco. Sentite cosa scrive Platone nell'ottavo libro della Repubblica. Il senso di vergogna, aidos, parola potremmo dire parlante nel contesto della grecità arcaica, l'aidos è il pudore, che è manifestazione di quel senso del divino che è in noi ed è il rispetto dell'ordine delle cose, aidos prende il nome di stupidità. La temperanza, soffrosine, diventa viltà, anandria, al capolvolgimento semantico di questi termini etici positivi, fa eco l'esaltazione dei vizi alla stregua di virtù. La tracotanza, ovvero la iubris, diventa il segno del potere e della capacità di imporre la propria volontà. Al di là della valenza politica e filosofica di queste considerazioni, vale la pena concludere arrivando a una considerazione d'insieme che a mio avviso si può trarre dalla filosofia platonica proprio attraverso l'influsso anche esercitato dalla tradizione sofistica e dalla riflessione storica tucci d'idea che troviamo anche in dialoghi citati stamattina come l'eutifro, l'oione, il cratilo. Nell'ottica di Platone potremmo dire che la parola è uno strumento di ricerca e di indagine filosofica, ma non può essa stessa coincidere con la verità. La parola è strumento di ricerca nella misura in cui la parola rimane viva e vitale, nella misura in cui la parola è principio e, potremmo dire, arche del procedimento dialettico, del Dialegezeit, della ricerca, della discussione in comune, della suonusia filosofica, per arrivare a una forma, avvicinarsi a una forma di verità. La parola nell'ottica di Platone quindi, a differenza del sapere arcaico, non deve mai essere considerata come una sorta di tomba del senso. La parola nell'ottica di Platone è ciò che garantisce uno delle, potremmo dire, delle modalità in cui Platone definisce la filosofia, ovvero il Logon di Donai, che vuol dire letteralmente conto, ma in un senso più pieno significa anche dar senso, trovare un senso della realtà. Un linguaggio fisso, dogmatico e strutturato nella modalità di una verità indubitabile e ingiudicabile in quanto lontana dalla nostra possibilità di indagine, agli occhi di Platone è una non-verità. Icracilo gioca interamente su questa dimensione. Il cratilo critica profondamente il sapere arcaico, potremmo dire di matrice sacerdotale, si citava stamattina Eutifrone, ma anche il sapere diciamo della tradizione poetico, mitologica, esiodea e omerica, come incapace di rendere ragione di se stesso. voglio chiudere, credo che come tempi al pelo ci sto, partendo di nuovo da un gioco etimologico ma a mio avviso particolarmente significativo anche in relazione a quello che si era detto stamattina. l'attualità del pensiero filosofico, io dalla mia prospettiva di antichista, l'attualità dell'antico, del pensiero filosofico antico. Credo che il gioco etimologico, non in senso heideggeriano, ma qui autenticamente di ricerca dell'etimologia come eteos, ricerca di un vero significato della parola, sia particolarmente significativo. Attuare è un termine tardo latino utilizzato per tradurre il concetto di en entelegria di Aristotele. Actualis vuol dire ciò che è in atto. Quale modo migliore nell'ottica di Platone di concepire la filosofia come quel qualcosa che strutturalmente essenzialmente è sempre in atto perché è sempre in gioco. [00:52:56] Speaker E: Grazie. [00:53:05] Speaker B: Grazie. [00:53:11] Speaker A: Molto professora Bate per questo confronto tra prospettive antiche e cornici contemporanee che offre sicuramente punti di vista scusate punti trasversali e a questo proposito abbiamo qualche minuto eh per fare delle domande o per rivolgere brevi interventi dal pubblico perché. [00:53:36] Speaker F: Ci sono i collegati. Beh, dopo i ringraziamenti doverosi alla promotrice, professoressa Langella, il professor Damonte, i relatori, i moderatori, debbo dire che da stamattina il professor Ghisu mi riempie di martellate in testa. Innanzitutto il retroterra Gramsciano nel giorno di Benetto Croce, morto proprio il 20 novembre di 73 anni fa. Ecco, ma Caro Sebastiano, il decentramento permanente del soggetto, tu citi Lacan, ma c'è dietro un asse che va da Nietzsche al pensiero debole, al Pieraldo Rovatti di trasformazioni nel corso dell'esperienza che è tutto giocato su questo registro? con dietro le spalle il marxismo francese, che tu hai evocato già stamattina, che entra in contrasto con l'esistenzialismo. Bene, Louis Althusser, tanto per dire il personaggio, morì in manicomio decenni dopo aver strangolato la moglie. Dove lo mettiamo, Roger Garaudy, morto musulmano? Ma dove mettiamo, caro Sebastiano, il marxismo umanistico dell'asse che va da Henri Lefebvre a Lucien Gommin, gente che diceva che bisogna ridurre lo spazio del lavoro per moltiplicare il gioco, la conoscenza, l'amore e il riposo? E noi meridionali diremmo la botte piena e la moglie ubriaca. Non si può fare. Allora, dietro tutto questo però in qualche modo c'è una dimensione profonda, cioè c'è quella dimensione del problema Nietzsche. Allora io vorrei chiederti fraternamente se tu condividi l'interpretazione di sinistra lungo il formidabile asse che lega Giorgio Colli a Gianni Vattimo o se ti convince di più il compianto mimmolo surdo che nel Nietzsche l'aristocratico ribelle, un'opera monumentale, ultima edizione 2014, ha detto no, guardate che Nietzsche è esattamente quello che sembra, razzista, classista. Ecco, grazie. [00:55:44] Speaker C: Sì, grazie alla domanda che mi permette di richiedere alcuni punti. Chiaramente l'attività del centramento del soggetto è molto diffusa, per certe veste la si ritrova già in Spinoza addirittura, se vogliamo citare un classico. Vittorio Morfino ha trattato questo tema, non solo anche Bali Barbi, ma di lui. analizzando il concetto di trans individuale ad esempio, ma poi non si ritrova effettivamente molte soluzioni. Diciamo così che è un'affermazione che ha diverse invarianti, quasi sarei tentato di dire, che ha diverse varianti spesso opposte anche tra loro, perché una cosa è l'esito diciamo così di vatti, ma del pensiero debole in Italia, un'altra però è l'esito all'interno del marxismo, per esempio nella scuola di Althusser fino ad arrivare fino a noi, diciamo così, con Barry Barret e altri autori che si possono citare, proprio perché in un certo senso comunque in quest'ultima impostazione resta la guida del marxismo, quindi la necessità in ogni caso di confrontarsi con quel che accade nel reale, con la pratica politica, con la conoscenza del reale e non assolutizzare questo soggetto, perché il rischio idealistico sarei tentato di dire in questa idea del centramento del soggetto può esistere, cioè assumendo il soggetto come effetto Non è che se ne prive però la funzione. Rispetto a quanto dicevi anche tu per quanto riguarda l'esistenzialismo, in realtà l'esistenzialismo non è escluso da quella sua prospettiva, nel senso che il soggetto rientra, per così dire, come effetto, nel senso che la sua esistenza, la stessa esistenza quotidiana, va compresa nel momento in cui se ne individuano le determinanti, le dinamiche che lo istituiscono. come dire, un tentativo di cancellare il soggetto, ma di ricolocarlo cognitivamente e di comprenderlo in un certo qualsiasi modo, cioè non rifarsi dal soggetto per spiegare il soggetto alla surdità della vita, ma ricondurre per esempio la surdità della vita che noi viviamo quotidianamente alle sue condizioni storiche, diciamo così, che non sono definitive. Ecco, per quanto riguarda l'ultima domanda, come dire, l'alternativa tra la critica dello surdo, c'è tutta una tradizione marxista in questo senso, Io mi colloco nel centro, perché non ho bisogno di rivolgermi a Nietzsche. Nietzsche è stato interpretato in tanti modi, ma credo che alcune conclusioni che ha aggiunto Althusser possono ben prescindere da Nietzsche. e anche alcune conclusioni di autori a lui vicini come Foucault o Deleuze per esempio. È vero che loro spesso, soprattutto Deleuze forse, ma sappiamo anche dalla loro biografia che sono stati influenzati da Nice, tuttavia io credo che le fonti siano altre, per cui mi rifiuto a ricondurre pur non volendo demonizzare come fa l'ussurdo Nietzsche in un certo senso, vorrei riconturare questa affermazione di un soggetto come effetto a Nietzsche ad una determinata impostazione filosofica. Di Russurdo secondo me, lo dico brevemente perché non posso soffrire più di tanto, è critico l'impostazione e la comprensione che ha del marxismo. Secondo me il marxismo, o meglio Marx per così dire, ha prodotto proprio una svolta storica, non c'è dubbio, e quello, come diceva Althusser, ha aperto il continente storia alla scienza. Lui confrontava naturalmente Marx con Galilei per quanto riguarda la fisica e così via. A mio avviso, se è così, prendiamo la lettera di casafermazione, però allora vuol dire che ha aperto un continente. quindi una ricerca, una ricerca che è stata sollecitata, è stata portata avanti anche da chi marxista non lo era. Per cui gli innesti successivi, che l'usurdo però nega, come per esempio quelli di Foucault, quelli di Deleuze, a ritroso se vogliamo quelli di Spinoza, cioè rispetto ad un autore precedente a Marx evidentemente, ma anche Lacan, ma anche la linguistica, tutte le scienze umane, l'antropologia dall'avistoso, insomma tutti questi autori si sono innestati, hanno generato una teoria che a mio avviso, necessità di queste ricerche, come dire, hanno le quali, d'altra parte, hanno ragione di essere nel quadro del materialismo storico, secondo me, cioè nel quadro di quella prospettiva che Marx, secondo me, ha aperto. Se poi si insiste nel parlare del marxismo è comprensibile perché le scienze umane hanno questo problema. Nelle scienze umane il soggetto coincide con l'oggetto della conoscenza. Nel senso che noi siamo interamente interessati agli esiti delle scienze umane, un po' diversamente dalle scienze anche se teoricamente ci sono stati momenti in cui questo è accaduto anche per quanto riguarda le scienze della natura. Quindi ha senso continuare a parlare di marxismo perché avrebbe senso continuare a parlare di neotenia? Newtonesimo, Galileismo, se fossero contestate quei paradigmi, il che non accade nella fisica, fino al proprio contrario, invece accade nelle scienze umane per il motivo che ho detto, per questo cortocircuito tra soggetto e oggetto della conoscenza. Quindi, in breve, in un certo senso, mi rifiuto a collocarmi o tra Nietzsche da una parte e l'Ossurdo dall'altra, che è un grande studioso peraltro, quindi riconosco anche per carità la sua validità, sono sempre simulanti le sue ricerche, anche di critica, e vanno prese sul serio, non c'è dubbio. Quindi, di Nietzsche l'ultima cosa è che in fondo Nietzsche va interpretato come colui che ha previsto, secondo me, quello che sta accadendo. L'oltre uomo di Nietzsche non è necessariamente una declinazione che ha avuto per carità certamente le novecento di destra, ma anche una di sinistra. Indica un modo d'essere della soggettività contemporanea che forse è presente, che riguarda proprio il nostro modo di collocarci nella storia. Indica un profilo di soggettività. che per così dire ha il di qua delle successive eh differenziazioni anche di presa di posizione politica. Ma questa è una mia ipotesi che adesso butto giù senza altri impegni. [01:01:33] Speaker E: Diciamo così. [01:01:33] Speaker B: Grazie. [01:01:36] Speaker A: Grazie. Qualche altra domanda o breve intervento? Anche da casa? Ok forse beh ho alzato prima la mano lui. [01:01:44] Speaker G: Ok. [01:01:45] Speaker A: Si sente? [01:01:48] Speaker H: Ma forse. [01:01:55] Speaker A: Le persone connesse da casa. [01:01:59] Speaker G: Perfetto. [01:02:01] Speaker B: Se l'individuo è effetto della causa di svariate forze, però allo stesso tempo si vede nel tempo una variazione di queste. [01:02:16] Speaker C: Cause, la variazione nelle cause è da dove proviene? Da eventi casuali che le modificano e. [01:02:23] Speaker B: Poi modificano l'effetto all'individuo? [01:02:26] Speaker C: Da un moto già presente quasi suicida delle cause che desiderano già un moto di mutamento che si riflette nell'effetto l'individuo. L'individuo, il soggetto si modifica certamente perché sono delle dinamiche complesse, culturali, ho citato, non posso essere generico, linguistiche, culturali, sociali e così via. È chiaro che l'individuo ha una sua struttura e io mi richiamo, potrei richiamarmi in questo senso alla topica afroidiana per esempio, ad una struttura anche alle sue pulsioni che vengono però sovradeterminate in base al contesto storico in cui queste si danno, non c'è evidentemente in questa impostazione un qualcosa di a priori rispetto a quello che poi accade nella realtà, per cui è chiaro che l'individuo ha una struttura, in un certo senso, che viene come dire una forma se vogliamo, una potenzialità, ma io mi limiterei a parlare anche di i semi classici freudiani, di pulsione, c'è una libido, una pulsione, qualcosa che comunque poi viene formato in qualche modo storicamente e questo si trasforma nel corso della storia. Poi ci sono delle velocità che variano, naturalmente, alcune cose permangono, altre si trasformano più velocemente, però non di meno l'individuo, come dire, innanzitutto l'individuo intendo per soggettività, è sempre qualcosa di collettivo, questo è importante, qualcosa di collettivo e storico, al momento in cui Anche il modo di rapportarsi a se stesso è dato proprio dalla soggettività che l'ha istituito come tale. [01:04:15] Speaker B: Da questo punto di vista il divenire. [01:04:17] Speaker C: Diciamo così, è possibile perché c'è una struttura psichica evidentemente, una struttura che evidentemente si modifica però viene modificata nel corso della storia. Io credo che queste ricerche si possono anche operare a livello quasi empilico, il modo in cui in qualche modo per esempio viene orientata alla dimensione anche pulsionale, che non è istintiva evidentemente, ma è proprio un'energia che necessariamente viene ordinata, viene codificata, viene da un determinato ordine simbolico che varia nella storia, con diverse velocità naturalmente. Non so se ho risposto, spero di sì. [01:05:06] Speaker I: In parte mi ha già anticipato il mio collega con le domande e provo a specificare meglio che cosa voglio chiedere. Quello che mi chiedo è che rapporto c'è in fin dei conti tra la causa e l'effetto, quindi tra la soggettività data, come dice lei, e poi l'individuo? C'è un rapporto diretto, come lo spiegherebbe lei, o indiretto in qualche modo? Il dubbio che mi viene è che la realtà storica In che senso sembra quasi il luogo della necessità nella sua ricostruzione? Però come rendiamo conto della storia che a me pare invece essere il luogo degli accadimenti, quindi proprio il luogo della libertà? E in quanto il luogo della libertà e degli accadimenti, come questi accadimenti possono essere necessari in un senso forte? in un senso metafisico è proprio ciò che non muta, ciò che non accade. Quindi la mistificazione forse non deriverebbe più che da un soggetto assoluto, da una ricostruzione di cause che spesso sono invece condizioni fittizie o comunque... che rapporto c'è tra queste cause e gli effetti? Non so se mi sono spiegato bene, grazie. [01:06:27] Speaker C: Ma naturalmente bisogna va' intendere sul concetto di libertà che lei ha evocato. Prima ancora direi che la storia evidentemente poi, qua c'è insomma un campo piuttosto ampio e quindi lo posso appena, adesso posso appena accennare, però le dinamiche storiche evidentemente sono, certamente sono condizionate da tantissimi fattori, cioè da questo punto di vista proprio lo stesso Althusser parlava di materialismo aleatorio, intendendo il fatto che la storia è costituita da delle dinamiche che spesso si incontrano casualmente. Lui evocava addirittura Epicuro, il clinamen, che poi non è Epicureo se non sbaglio, ma in realtà è un'altra... Sì esatto, di Lucrezio, ma a prescindere da questo aspetto filologico storico però sa di fatto che c'è realmente una contingenza nella storia, di cui non di meno il soggetto è effetto però in un certo senso. Le dinamiche in cui parlo, ripeto, sono dinamiche complesse, non sono però una sorta di condizionanza delle leggi, come se ci fosse una legge del divinire storico, in questo senso bisognerebbe anche correggere alcune formulazioni marziane, per esempio nell'introduzione alla critica dell'economia politica dove Marx parla di stradi, quasi in maniera legge della necessità storica, in effetti anche questo è stato corretto proprio dalla scuola di Althusser a mio avviso correttamente, quindi non c'è necessità. D'altra parte c'è nel momento in cui c'è un rapporto di causa-effetto certamente, anche se non bisogna semplificarlo, perché sono tante le cause per cui alla fine l'effetto è veramente variegato, anche perché queste cause sono condizionate da delle contingenze in un certo qual modo. C'è una necessità, a questo punto però mi richiamo forse alla settima definizione della prima parte dell'etica, della definizione di libertà da parte di Spinoza, per cui la libertà libera e coellente che agisce secondo la propria natura, in qualche modo. Poi possiamo anche richiamarci ad altri autori, da Hobbes precedentemente e poi anche a per esempio anche a Engels, per cui la libertà e la conoscenza della necessità, nel senso che io devo conoscere ciò che mi rende quel che io sono, in un certo qual senso. Quindi se c'è una necessità, ma questa necessità c'è perché noi non abbiamo scelto di essere del mondo. ma non abbiamo neanche scelto di nascere a Genova oppure di nascere altrove per la lingua che parliamo. La libertà non viene meno nel momento in cui noi ci rendiamo conto delle condizioni che ci hanno fatto essere ciò che noi siamo. Naturalmente il problema della libertà emerge quando c'è una non corrispondenza o della illibertà. quando c'è una non corrispondenza tra determinati bisogni e il loro insoddisfacimento o la loro soddisfazione eventualmente. Ma sono dati storici anche questi, per quanto possano essere individualizzati, come dire, nel senso che poi noi li viviamo ovviamente come singolarità, non di meno sono storici. Quindi la necessità non è in contrapposizione alla libertà, ma esattamente il contrario, almeno. [01:09:23] Speaker B: Io lo concepisco così. [01:09:27] Speaker H: Grazie molte. [01:09:30] Speaker A: Non ci sono altri interventi ma io passerei allora alle ultime relazioni di questa sessione e quindi ora darò la parola a Niccolo Germano. Niccolo Germano svolge attività di ricerca presso l'Università di Genova dove è cultore della materia in filosofia morale. I suoi studi vertono in particolare sul pensiero esistenzialistico, sulla filosofia europea contemporanea, sulla storia della cultura italiana e tra le sue più recenti pubblicazioni ricordo la monografia Etica, Religione e letteratura nel tempo del nichilismo, un percorso chirurgico e gardiano. e la curatela del volume di Alexandre Coiret Mistici spirituali alchemisti del sedicesimo secolo tedesco e la sua relazione al titolo La filosofia un cantiere aperto ripensare l'esperienza etico-religiosa con François Julien. Vi lascio la parola. [01:10:28] Speaker G: Grazie. Buonasera. Mi sentite? Buonasera. Un saluto cordiale. ok sì eh innanzitutto mi è assai gradito ringraziare per l'organizzazione di questo importante convegno e il loro generoso invito a prendervi parte la professoressa Simona Langella e il professor Simone eh Marco Damonte certo un tema come quello evocato dal titolo del presente consesso la filosofia di fronte all'opportunità del futuro impone da subito non solo un'immediata presa di posizione teoretica nei confronti degli ardui temi messi in campo, filosofia, opportunità e futuro, ma anche una sorta di pascaliano irrimandabile Paris. Una duplice scommessa, a guardar bene, è qui preliminarmente invocata, ed è una scommessa che investe lo statuto stesso del filosofare. Da una parte, essa ci induce a interrogarci, oggi con maggiore inquietudine rispetto a ieri, se sia ancora pensabile un futuro. e se questo futuro abbia in effetti da offrirci delle opportunità non ancora sviluppate, grazie alle quali ridare senso, è il logo di Donald di cui si diceva prima, a una realtà che pare a volte inghiottita dalle tenebre di un ordine globale che sempre più presenti tratti di un sistematico disordine globale. Come ha notato un pensatore e poeta in Schatten des Nichilismus, Gottfried Ben, il nostro tempo è quello che sa, e cito, che non ve supplica il mondo a cui un Dio si riveli, egli che ha tutto sofferto sa che il Dio fa segno di no, chiudo citazione, e che ha dovuto dolorosamente farsi carico della presentissima assenza inflitta da una negazione siffatta. Dall'altra parte, poi, il secondo corno della sfida impone quale condizio sine qua non la necessità di accortare una fiducia, più o meno incondizionata, alle possibilità della filosofia, e cioè alla tribolata speranza che in un'epoca come la nostra la filosofia possa continuare il proprio cammino, offrendo anzi un contributo essenziale per la realizzazione di un futuro diverso, nel rinvenimento di diverse, impensabili opportunità. Su un tracciato di tal fatta, irto come chiaro di smottamenti e difficoltà non aggirabili, si è instradata la ricerca del filosofo ellenista e sinologo francese François Julien, aperta come poche altre all'approfondimento instancabile e di per sé inconclusivo delle ressource, delle risorse culturali e spirituali delle diverse tradizioni che frastagliano la storia mondiale, per provarsi a impiegarle in una ripensata filosofia dell'esistenza che possa appoggiarsi, da ultimo, su di un comune mente umano, svincolato da ogni cautela dogmatica, ideologica e proiettivamente totalizzante. E in particolare negli ultimi sui scritti, in modo sistematico a partire dall'universale del comune, apparso nel 2008, che non senza ragione potrebbe indicarsi come un punto di svolta nella sua produzione saggistica, che Julien ha tentato di scavare dal di fuori, o dehors, della nostra tradizione, quella fonologocentrica proprio al pensiero occidentale. Uno scavo dettato dall'esigenza di individuare un écart uno scarto tale da rilanciare l'impensato che vive e che vivifica il fondo veramente comune di tutte le culture, il quale si lascia appunto cogliere, parzialmente, incomputamente, asintoticamente, soltanto in quella che gli chiama, e cito, una esplorazione sfruttamento e gli scarti tra culture e tra pensieri, tramite cui è l'umano stesso che si osserva strada facendo, grazie a questo confronto, al tempo stesso espandendosi e riflettendosi nelle proprie risorse e possibilità. Il lungo detour di Julienne attraverso il pensiero cinese, iniziato nel 1979 e poi non più dismesso, finisce così per verificarsi, senza perciò vanificarsi, nel tentativo di mettere in tensione i tradizioni altre, come certo lo sono quelle europee e quella cinese. per cogliere a partire da e in questa alterità strutturale il proprio differenziale che distingue, separe, assieme lega quelle diverse reclinazioni del comune mente umano e della comune situazione esistenziale. La deviazione attraverso la Cina, del filosofo francese, appare pertanto, retrospettivamente, quale la scoperta di intelligibilità, e cioè di strategie di coerenza logico-esistentiva, differenti da quelle impiegate dal pensiero occidentale, tali da causare un vero e proprio effetto di spaisamento, di shock, provato da un contrasto che in nessun modo può essere ridotto alla semplice, rassicurante, proiettiva comparazione. Soltanto quando si ficca lo sguardo nella fessura sgomentante del tra, nello spazio vuoto spalancato dall'antr, soltanto in quel preciso momento si scopre che esistono altre risorse del pensiero, sviluppate diversamente da come sono state accolte e approfondite dalla nostra cultura. dove il pronome possessivo nostro tradisce di per sé la struttura coloniale, possessiva appunto, del linguaggio comune. Per limitarci a due esempi, assai importanti per Julien, cosa accade, come accade nel taoismo, quando a mancare l'idea stessa di Dio, quando quest'idea, assolutamente centrale invece per la cultura occidentale, non si dispiega e non si trasfonde in concrete oggettivazioni, ma rimane libera di seguire le fluttuazioni armoniche, increate, del tao, della via. E che succede quando, seguendo l'Epidura Lang, l'esistere si ritrova orfano dell'essere, quando cioè l'inconcussa stabilità ontologica è inficiata a bimis dalla mancanza di un'espressione linguistica corrispettiva a quella pensata o escogitata dalla tradizione greca, che a sua volta è marcata dalla diversa gamma semantica che è eredita dalla tradizione ebraica? Come tradurre dal piano linguistico razionale a quello pratico esistenziale? Come trasporre, senza imbrigliarlo nel livellamento comparativistico, il distillato raccolto nell'opera di Zhuangzi quando egli arriva a constatare, e cito, che gli uomini veri con leggerezza se ne andavano, con leggerezza venivano al mondo, ed è tutto. Come scrive il pensatore francese, allora, e cito distesamente, l'accettazione dell'esistenza di scarti tra lingue e quindi tra modi di pensiero che a partire da essi sono sviluppate, ci fa uscire, ci obbliga ad uscire, dal riferimento alla verità, che almeno in Europa ha sempre rappresentato un'ossessione per il pensiero. Distanziandosi dall'aspetto normativo, vale a dire sostituendolo con un'ottica esplorativa volta a sondare le risorse, a considerare il culturale il pensabile dal punto di vista delle strade percorse e di conseguenza dalle scelte i parimenti possibili, l'idea di scarto, che evocavamo prima, ci libera dall'esclusività del vero che rifiute il falso. Una cultura e il pensiero che in essa si sviluppano non sono più veri di un'altra. La cultura e il pensiero cinese non sono più o meno veri di quello europeo". E questo perché essi non sono più riconosciuti veri o falsi in quanto tali, in virtù della logica oppositiva ed escludente propria della mentalità occidentale, bensì sono piuttosto riguardati a partire dalla loro capacità di sviluppo e di rendimento, di opportunità aperta e aprente nei confronti dell'avvenire. Ma in questo senso allora la deviazione cinese, come tutte le deviazioni che non siano semplici erramenti, impone anche allo stesso tempo la necessità di un ritorno, necessità che caratterizza nello specifico il secondo momento della proposta di Julienne, quella di cui qui stiamo dicendo. L'utilizzabilità di un simile passaggio attraverso il fuori della Cina si configura come l'inedita, fondamentale possibilità di ritornare sui partiti presi, a partire dai quali si è sviluppato il nostro pensiero in Europa, partiti presi nascosti, non esplicitati, che il pensiero europeo spaccia per evidenze da quanto gli assimilati, su cui esso si è adagiato e ha prosperato nei secoli di europeizzazione forzata del mondo. nella fallace e disumana convinzione di rappresentare la vera ed essenziale e unica figura dell'umano. Il presente che viviamo, o al quale sopravviviamo, in scala globalizzata, è stato insomma storicamente costruito a partire da un'appropriazione appropriativa valoriale di universali locali e parziali, gabellati però impositivamente quagli universali universalmente umani to cure, senza mai passare da un autentico, verace confronto con gli universali altri, esterni, cioè la maglia onninglobante della ragione occidentale, metafisica o postmetafisica che fosse o che si volesse. Il vaglio dell'universalmente umano si è pertanto ridotto alla sottomissione delle ragioni altrui, quando espressamente violenta, quando stuchevolmente ammantata dal candido velo dell'umanitarismo. Ragioni perciò misconosciute nella micrologia loro, e riportate invece al macroscopico disegno totalizzante di un universale scaduto in universalizzato e speranto, tanto poco neutro da tradire immediatamente la propria matrice eurocentrica. La pania in cui è caduta la globalizzazione, della politica con la sua rifeudalizzazione, della filosofia, della lingua e della cultura illanguidite e resi inani dalla diffusione del gergo globisch, l'etica e l'economia con la loro stasi iperaccelerata, sostenuta paradossalmente da un principio di irrazionalità permanente, Questa pania finisce per risultare, dalle precise indicazioni di Julien, non una metastasi della cultura occidentale, bensì il suo normale sviluppo, il suo risultato quasi scontato. La derubricazione dell'universale nella casistica appropriativa proiettiva, e il suo irrigidirsi nella coincidenza perfetta con la Weltgeschichte e il suo movimento espansivo di conquista, non ha finora permesso all'evenire lo sviluppo di una diversa, tutt'altra, idea di universale, che pure preme da sempre nel cuore di quella, essendone, anzi, la verità implicita, effuturibile. Come scrive Julien, un altro universale è possibile, e cito, né puramente residuale, né ridotto al contenuto definito di un qualche universalismo, l'universale è questa pienezza mancante, questo continuo e incompleto che rinvie incessantemente alla funzione del negativo". realizzandosi pertanto come uno svuotamento interminabile di ogni contenuto prestabilito. Esso si configura così come l'incondizionato, come l'indisponibile, che scarta rispetto alla logica escludente del principio di contraddizione, tale da rendere possibile e pensabile, nel margine operativo dischiuso allo scarto e all'altra, una comunità altra, da costruirsi a partire da quell'universale che si è infine operativamente riconosciuto come risorsa comune. proprio a partire dalle indicazioni di Giuliani intorno al terzo livello categoriale del concetto di comune, capace di evitare sia l'arroganza e l'universale totalistico, sia le blandizze e l'universale uniformistico, Giuseppe Cacciatore ha potuto notare come un universale così atteggiato, costitutivamente aperto alla totalità parziale veicolata dal cum munus, consente di estendere la propria utilizzabilità, e cito, a tutti i gradi di comunanza che caratterizzano l'esperienza dell'uomo, segnatamente, come è chiaro, l'esperienza etica e religiosa. In effetti, a ben guardare, il ripensamento dello statuto di universale, nella sua relazione dialetticamente reciproca con il particolare, si pone in julienne come mossa speculativa, preventiva e necessaria del delinearsi successivo di quella che, negli ultimi anni, viene sempre più assumendo i tratti di una filosofia del vivere. Prima di passare oltre, mi si è permesso di insistere ancora sull'importanza strategica dell'universale operata da Julien. In effetti, soltanto desaturando dall'interno l'universale classico, a partire dal confronto dialogico con quelle culture che premono dal di fuori e che permangono inassimilabili nella loro più genuina alterità, diventa possibile posizionarsi in guisa attivamente esplorativa e non già subitamente passiva nei confronti del nostro traditum, di quella tradizione che si è sedimentata in noi e che ci costituisce fin nelle nostre più intime fibre, interior intimum meo et superior sum momeo. Tradizione allora non meramente tralaticia, assunta come un datum fisso, naturale e inamovibile, identità culturale essenzializzata ed essenzializzante, totum compatto e tetragono a ogni interruzione di novità. Ben al contrario, la tradizione a cui guarda il filosofo francese è colta solo nel suo storico farsi, perché il proprium del culturale è di cambiare e di trasformarsi, così come muta e si trasforma l'uomo, questo animale instabile che non ha natura, ma che ha storia". A proposito di Nietzsche, di cui si diceva Certo, un sondaggio come quello portato avanti da Julien non poteva non incontrare sul suo tragitto quello che deve senz'altro annoverarsi tra i più importanti, se non il più importante, vettore trasformativo della storia del pensiero occidentale e che tuttavia, giuste le indicazioni del pensatore francese, rimane ancora oggi, soprattutto oggi, impensato a confronto dell'inaudito che lo costituisce. Il problema del cristianesimo diventa pertanto, almeno a partire dalla pubblicazione nel 2018 del saggio dedicato alle risorse del cristianesimo, una sorta di specula privilegiata alla riflessione decostruttiva di Julien, ponendosi un tale problema quale soglia, punto di incontro, di transito, tanto nelle sue ricerche sul tema dell'interculturalità, tanto di quelle dedicate alla delinnazione di un'etica resistenziale della vera vita. nell'affrontare, nel non evitare la questione del cristianesimo senza per questo aderire alla via della fede, il filosofo francese si propone di portare alla luce le risorse dimenticate, non sfruttate o operativamente denegate della tradizione cristiana per provare tramite di esse a pensare un'abitabilità altra per il presente e per l'immediato futuro. Ressource è allora tutto quel patrimonio sommerso che si esplore e si sfrutta, e che si esplore e si esplora ancora mentre la si sfrutta. È ciò che non è proprietà di nessuno e non appartiene. Ed è opposta in questa sua disappartenenza, in questa sua fondamentale atopia dislocante, alla clausura ideologica dell'identità culturale. Essa è appartiene soltanto a chi faticosamente la scopre e la impiega, e nello scoprirlo e nell'impiegarlo anche si accorge che non v'è mai risorsa che stia sola, che vive in disdegnosa solitudine, perché accanto a quella, nel medesimo filone, possono e devono cercarsi altre risorse, a loro volta da utilizzare cooperativamente, mettendole evangelicamente a frutto. Le risorse, e cito, non entrano in concorrenza le une con le altre, si integrano le une con le altre, a seconda di come vengano diversamente esplorate. e si arricchiscono delle loro differenze. Non si scomunicano. Posso avvalermi delle risorse del pensiero cristiano, come anche quelle del pensiero taista, e le une si riflettono a partire dalle altre. Così, per di più, le risorse non hanno bisogno di essere perorate né predicate. Si offrono a chi le sa impiegare". Scoperto, a quest'altezza, è il circolo virtuoso che lega l'idea operativa di risorsa, quale apertura d'eclosion dei patrimoni culturali che folgiano il vivere umano, al ripensato universale comune, quale fondo d'intesa e l'espressione di Julienne dell'universalmente umano, che è poi luogo trascendentale in cui viene inchiaro che la funzionalità dell'universale consiste nel preservare una trascendenza che rimane però interna, nello stabilire un assoluto, incondizionato o piuttosto incondizionabile, che non è religioso ma anzi ci libera dalla religione. Sono parole di Julienne. La liberazione dalla religione, perseguita dal filosofo, non è perciò da intendersi come diniego e rifiuto della religione, della sua ricchezza umana e umanante, bensì come tentativo di preservare quella strutturale, fondativa eccedenza, che egli chiama classicamente trascendenza, che sussurra, parla, grida nell'anima dell'uomo. Di preservarla intatta da tutte le posteriori sovrastrutture dogmatiche, che tentano di rinchiuderla in ordini prestabiliti, soffocandola in un contromovimento di irrigidimento. Come ha notato Jean-Luc Nancy, discutendo della verità della democrazia, cito, l'infinito non dovrebbe essere dato e l'uomo non dovrebbe essere un Dio. Lo stesso potrebbe ben dirsi intorno alla verità della religione nel pensiero di Julien. Per mantenere desta quella costitutiva spinta alla trascendenza che inabita l'umano, si deve riconoscere che non vi è nessun infinito conchiuso e perimetrato da un dato, e che parimenti nessun uomo, in quanto uomo potrà mai pretendere di identificarsi perfettisticamente con l'idea regolativa, con la risorsa di Dio. Accingendomi a concludere, conviene sostare brevemente sulla risorsa forse più dirimente sfruttata dal filosofo francese per ripensare l'esperienza etico-religiosa, aprendola alle sfide del futuro. Si tratta della décoincidence, della décoincidenza. ossia della necessità, storicamente impostasi con l'uscita dalla religione operata dal cristianesimo, di uscire dalla coincidenza perfetta con sé e con la propria realtà, per liberare, per dischiudere dei possibili inediti, cito, attraverso la fuoriuscita da ciò che la normalità precedente aveva bloccato e pietrificato, chiudo la citazione, adattandoli cioè alla piena coincidenza, negatrice di ogni ulteriorità. è da questa oggettivazione irrigidente che però si dischiude l'istanza deoggettivante della decoincidenza, rivelandosi pertanto come logicamente precedente al moto stesso del coincidere, che a sua volta può avanzare le prove per tese egemoniche di riempimento soltanto insistendosi in una spazialità inizialmente vuota, strutturalmente assenziale. Come scrive il filosofo, cito, in principio si pone ciò che non si lascia ancora specificare come un sé o circoscrivere come essenza, in principio è dunque la decoincidenza e Dio stesso, seguendo il filo argomentativo teso da Julienne, non è altro che decoincidenza, questa capacità infinita di aprire varchi, soglie, transiti, di suscitare possibili inauditi, validando così il proprio statuto evenemenziale. Dio e decoincidenza. Di nuovo, lo si accennava, la verità della religione finisce per incontrarsi tanto con la verità della politica quanto con quella dell'etica, nella loro comunità intensiva e partecipativa. Decoincidenza cos'altro vuol dire se non osservare la possibilità di non appiattire e sprecare la propria esistenza in schemi naturali prefabbricati, sdilinquendole in una serie di divertimenti resi orfani dalla possibilità e insieme più che umana, discartare dalla quotidianità media, nel riferimento costante a un possibile orizzonte di senso inesauribile, che è sempre al di là, pur manifestandosi soltanto nell'al di qua del nostro mondo. La decoincidenza finisce così per incontrarsi e trasfondersi nell'idea decostruita e potentemente decostruttiva del Dio cristiano, il quale, cito, è già decoincidenza nel contesto dell'umano. apre una fenditura in ciò che blocca l'umano nel suo adeguamento fin troppo umano e riapre dei possibili per l'umano nell'umano. Grazie per l'attenzione. [01:31:00] Speaker D: Grazie. [01:31:08] Speaker A: Molte per questo intervento molto denso e passiamo all'ultima relazione della della sessione presento Alma Massaro che ha conseguito un dottorato di ricerca in filosofia presso l'Università di Genova dopo aver approfondito i temi relativi all'etica e alla bioetica animale nell'Università di Yale e Harvard. Attualmente è cultore della materia in storia della filosofia presso l'Ateneo Genovese, autrice di numerosi articoli scientifici pubblicati su riviste nazionali e internazionali e alcune monografie tra cui ricordo breve storia della filosofia animale. Il titolo della sua relazione è La questione animale tra doveri indiretti e tereofilia. [01:32:01] Speaker H: Sentiamo un po', si sente? Bene, innanzitutto ringrazio gli organizzatori di questo incontro, nelle persone della professoressa Simona Langella e del professor Marco Damolte. Questa sera ho il piacere di condividere con voi una riflessione attorno a una delle possibili declinazioni dell'idea di diritto. Tradizionalmente il concetto di diritto è stato associato al solo essere umano. Non a caso una strategia spesso adottata per privare alcuni individui o gruppi di individui dai loro diritti è stata quella di sottoporli a un processo di disumanizzazione per renderli subumani, avvicinandoli così agli animali. È un po' l'idea del rapporto di dominio di cui parlava prima il professor Ghisu. Ad esempio, per giustificare la conquista del nuovo mondo, i conquistadori spagnoli rappresentavano i nativi americani come degli omuncoli, dei quasi animali. In questo modo era possibile privarli dei loro diritti, delle loro libertà e utilizzarli, ad esempio, come schiavi. Ecco, questa tradizionale concezione che vede nei diritti una caratteristica esclusiva dell'essere umano è stata messa in serio dubbio dopo la Seconda Guerra Mondiale. In particolar modo, attorno agli anni 70 del secolo scorso, un gruppo di studiosi che gravitava attorno all'Università di Oxford ha incominciato ad affrontare in modo sistematico tutti gli interrogativi sollevati dalla questione animale. Ad esempio nel 1975 viene pubblicato un testo molto importante intitolato Liberazione animale. Il suo autore, Peter Singer, propone argomentazioni di matrice utilitarista per giustificare l'ingresso degli animali all'interno del discorso morale. È sicuramente un testo molto importante quello di Peter Singer per quanto riguarda le relazioni interspecifiche, tuttavia è solo qualche anno più tardi, nel 1983, che viene pubblicato un'opera interamente dedicata ai diritti degli animali. Qui il suo autore, Tom Regan, un altro studioso afferente all'Università di Oxford, sostiene su basi razionali l'esistenza di alcuni diritti individuali degli animali. In particolare Regan propone un'interessante rilettura, in chiave intraspecifica, del deontologismo kantiano. Reagan definisce gli animali soggetti di una vita, dal momento che, cito l'autore, gli animali possiedono credenze e desideri, percezione, memoria, senso del futuro, anche del proprio futuro, una vita emozionale, nonché sentimento di piacere e di dolore, interessi preferenzi e interessi benessere. capacità di dare inizio all'azione in vista della gratificazione dei propri desideri e del conseguimento dei propri obiettivi, un'identità psicofisica nel tempo e benessere individuale, ecc. Essere soggetti di una vita, secondo Reagan, significa possedere un valore inerente. ovvero possedere un valore in se stessi e non in vista dei fini altrui. Quindi un valore inerente al soggetto di una vita al di là dell'utilità che questo soggetto di una vita potrebbe avere per un essere umano. Essere soggetti di una vita significa in detta infinitiva appartenere al regno dei fini. In questo senso gli animali, come specifica in realtà l'autore nel testo, quantomeno tutti i mammiferi superiori di un anno, sono titolari di alcuni diritti, diritti morali, primo fra tutti il diritto a non essere danneggiati. Ecco, velocemente le idee di Reagan. si diffondono nelle università dei diversi paesi europei. Solo tre anni più tardi, nel 1986, proprio in questo Ateneo, nell'Ateneo genovese, viene organizzato dalle professoresse Silvana Castignone e Luisella Battaglia il primo convegno italiano dedicato a questa particolare declinazione dell'idea del diritto. La discussione relativa ai diritti animali nasce quindi all'interno del mondo accademico, ma ben presto supera i confini delle aule universitarie e giunge a coinvolgere la società civile. Si crea così, nel giro di poco tempo, un vasto movimento di opinione che favorisce la nascita di nuove organizzazioni a tutela degli animali, nonché l'emanazione di leggi a difesa dei loro diritti. È vero che negli ultimi 40 anni, è stato osservato in varie occasioni, anche negli ultimi 40 anni è stato scritto molto di più sui diritti animali di quanto è stato fatto nei 25 secoli precedenti. Tuttavia questo dato non si deve far ritenere che l'interesse per la questione animale, per i diritti degli animali sia una specificità esclusiva del mondo contemporaneo. poiché la storia della filosofia ci testimonia come in realtà questo interesse sia molto antico e parte proprio dall'antica Grecia. Ecco, alla base delle diverse risposte che sono state date nel corso della storia del pensiero alla questione animale, è possibile individuare quantomeno due approcci fondamentali, quello dei doveri indiretti e quello dell'atteriofilia. L'approccio dei doveri indiretti giustifica l'ingresso degli animali all'interno della sfera morale sulla base di argomentazioni di matrice antropocentrica. Invece l'approccio dell'atteriofilia giustifica l'ingresso degli animali appunto all'interno del dibattito morale sulla base del riconoscimento del loro valore intrinseco. L'animale, secondo il punto di vista dell'atteriofilia, è portatore di un valore in sé che deve essere rispettato al di là di ogni utilità umana. Ed è proprio facendo leva su questo secondo approccio che alcuni pensatori sono arrivati ad attribuire dei veri e propri diritti anche agli animali. Ecco, per comprendere la differenza fra questi due approcci, possiamo guardare alla storia della filosofia, in particolar modo possiamo guardare al mondo antico, dove ci potrà poi aiutare forse il professor Abbate ad approfondire meglio, ecco. Nel mondo antico, dove questi approcci, vi dicevo appunto, sono stati elaborati. Ecco, tra i numerosi pensatori che si sono confrontati con l'interrogativo animale ve ne sono due, Pitagora e Teofrasto, che mi sembrano particolarmente interessanti per comprendere la differenza tra i doveri indiretti e la tereofilia. Ecco, entrambi questi pensatori riconoscono il valore morale del nostro agire nei confronti degli animali, tuttavia adducono giustificazioni molto diverse. Pitagora adotta l'approccio dei doveri indiretti. Ad esempio, per giustificare il regime alimentare non cruento, quindi il regime dietetico vegetariano, si rifà alla dottrina della metempsicosi, ovvero la credenza nella trasmigrazione delle anime da un corpo all'altro. Secondo questa dottrina, l'anima sarebbe immortale, preesisterebbe al corpo e sopravviverebbe alla morte del corpo. sarebbe inoltre soggiatta a un ciclo di reincarnazioni in forme di vita differenti al fine di potersi purificare dall'elemento materiale. In questo senso, secondo Pitagora, uccidendo un animale si correrebbe il rischio di uccidere un corpo di un animale vivificato da un'anima precedentemente appartenuta a un essere umano. Ecco allora che dal punto di vista di Pitagora e della metempsicosi iniziano a sfumare i confini tra l'omicidio e il sacrificio cruento e tra il cannibalismo e l'alimentazione carnea, la sarcofagia. Evidentemente la riflessione di Pitagora ha delle ricadute molto positive per quanto riguarda il rapporto che l'uomo intrattiene con le altre creature, però bisogna riconoscere che le ragioni che lui porta a favore della dieta vegetariana sono principalmente di matrice antropocentrica, hanno a che fare con la necessità di preservare la purezza dell'anima e di non contaminarla con delle azioni empie. Allo stesso modo, anche per promuovere la compassione e il rispetto verso gli animali, Pitagora propone argomentazioni che sono principalmente collegate con l'essere umano. Secondo Pitagora, essere rispettosi e compassionevoli nei confronti delle altre creature perché questo comportamento ingenererebbe nell'uomo un'abitudine a essere compassionevole e rispettoso anche nei confronti del proprio simile. Viceversa, la crudeltà nei confronti degli animali abituerebbe l'uomo a comportamenti crudeli e questo potrebbe avere ripercussioni importanti in senso negativo sul bene comune. Nuovamente l'argomentazione è di matrice antropocentrica. Invece Teofrasto, per parte sua, è rappresentante dell'approccio della tereofilia. Teofrasto è il successore di Aristotele alla guida del liceo e adotta proprio la prospettiva della tereofilia. Adotta questa prospettiva e adottandola giunge a riconoscere un diritto comune tra uomini e animali. Attraverso i suoi studi biologici, Aristotele è raggiunto a riconoscere una continuità tra le varie realtà naturali. La natura, secondo Aristotele, non fa salti, ma si sviluppa invece gradualmente. Per questa ragione, tra regno vegetale e quello animale, così come tra regno animale e quello umano, Non vi è un salto brusco, incolmabile, ma invece un'infinita serie di passaggi impercettibili e graduali. È l'idea della scala della natura, quella che poi verrà chiamata in epoca moderna, grande catena dell'essere. Quindi, dal punto di vista di Aristotele, esiste una certa prossimità tra l'uomo e l'animale. Tuttavia, l'uomo si differenzia radicalmente dalle altre creature in quanto unico possessore del logos, cioè della parola, della ragione. L'attributo del Logos è ciò che permette all'essere umano di comprendere la differenza tra il bene e il male, tra il giusto e l'ingiusto e quindi far parte, appartenere all'universo morale e di conseguenza a quello giolidico. Gli altri animali, invece, privi del logos, non possono conoscere a differenza bene e male, giusto e ingiusto, e sono quindi esclusi dalla sfera morale. Dice Aristotele, non v'è amicizia né giustizia verso un cavallo o un bue, non v'è infatti nulla in comune. Teofrasto porta avanti le osservazioni biologiche e psicologiche del suo maestro, ma nei trae conseguenze molto diverse. Gli animali, dice Teofrasto, partecipano delle stesse affezioni, degli stessi impulsi, della stessa capacità di sentire dell'essere umano e in qualche modo partecipano anche della capacità razionale. Gli animali possiedono quindi caratteristiche fisiche, psicologiche, simili a quelle dell'uomo e ciò non li rende soltanto prossimi all'essere umano, li rende congeneri, imparentati. Questa parentela tra uomo e animale li rende anche parte di un'unica comunità e appartenere a un'unica comunità vuol dire anche essere soggetti a delle regole comuni. Esiste quindi una giustizia interspecifica, possiamo dire noi oggi con il nostro lessico, che definisce il rapporto tra gli uomini e gli animali. Certo, evidentemente le ragioni apportate da Teofrasto a tutela e difesa degli animali sono molto diverse rispetto a quelle pitagoriche perché hanno a che fare con il riconoscimento del valore intrinseco dell'animale in sé, un'idea che appunto lo porta a sostenere l'idea dell'esistenza di una giustizia interspecifica. Certo, l'idea di una giustizia interspecifica è senz'altro minoritaria. rispetto alla considerazione logocentrica della morale offerta da Aristotele. Eppure quest'idea ritorna costantemente all'interno della storia della filosofia. È una tradizione minoritaria ma sempre presente, persistente. Un momento particolarmente rilevante, particolarmente fecondo, è senz'altro il Settecento, quando in Inghilterra prende avvio una vivace discussione in merito alla questione animale, in particolar modo riguardo alla possibilità di attribuire loro dei diritti. Questa discussione non rimarrà un vezzo di alcuni pensatori, ma porterà nel giro di pochi decenni all'emanazione delle prime leggi a tutela degli animali. Ad esempio, un pensatore molto importante in questo senso è Francis Hutchinson. che nella sua opera, risalente al 1755, è un'opera postuma intitolata Un sistema di filosofia morale, formula in termini di diritto il dovere umano di non infliggere inutili sofferenze agli animali. Quindi Hutchinson non si limita a sancire i doveri che l'essere umano ha nei confronti delle altre creature, ma parla di veri e propri diritti che pertengono agli animali. È sicuramente avventuroso il percorso che fa, molto coraggioso, ma ha un impatto notevole sulla riflessione settecentesca. È interessante perché propone due tipi diversi di genesi dei diritti animali, ne suggerisce una in termini sociali e un'altra in termini naturalistici. Per quanto riguarda la genesi sociale, Hutchinson stabilisce che questa genesi riguardi soltanto gli animali domestici. Gli animali domestici acquisiscono dei diritti attraverso il contributo che apportano al benessere della comunità di vita a cui appartengono, c'è una comunità domestica che è interspecifica, potremmo dire noi oggi, è fatta di uomini e animali e nella misura in cui gli animali contribuiscono al benessere di questa comunità acquisiscono dei diritti, il diritto di cui parla Hutchinson è quello non venire trattati inutilmente, in modo crudele. Vengono definiti da Hutchinson questi diritti avventizi perché appunto vengono acquisiti attraverso l'impegno dell'animale. formula un'altra genesi più naturalistica dei diritti degli animali e dice che in realtà questo diritto a non venire trattati crudelmente e senza necessità pertiene a tutti gli animali. Infatti gli animali sono sì inferiori rispetto all'essere umano per intelligenza e per capacità di senzienza, tuttavia tutti gli animali sono in grado di provare felicità e miseria. E questa loro capacità di provare felicità e miseria ha importanza morale. Dice Hutchinson, è inumano e immorale causare agli animali tormenti non necessari o privarli di quei piaceri naturali che non interferiscono con gli interessi umani. Ecco, certamente la dicitura non necessari lascia spazio a un ampio margine di discrezionalità, non è chiaro dove sia il limite, il confine tra necessario e non necessario, ci sembra una formulazione antiquata probabilmente dell'idea di diritto, però tanto antiquata non lo è perché oltre ai due secoli dopo noi ancora adesso nelle direttive europee a protezione degli animali continuiamo a parlare di maltrattamenti non necessari, ad esempio nella direttiva 63 del 2010 relativa alla protezione degli animali usati per fini scientifici viene riconosciuto il valore intrinseco degli animali, viene anche auspicato l'avvento di metodi alternativi, ma poi si giustifica l'utilizzo di animali vivi sulla base della presunta necessità per la salute umana e animale ambientale, quindi Hutchinson è ancora molto attuale. Come vi dicevo, l'idea dei diritti animali non rimane un vezzo di pochi studiosi, ma ha un impatto sulla società civile. In Inghilterra, nelle prime decadi dell'Ottocento, in particolar modo nel 1822, passa la prima legge a tutela degli animali, a cui ne seguiranno molte altre. I pensatori contemporanei che si occupano di relazioni interspecifiche non hanno potuto fare a meno di confrontarsi con questa lunga tradizione che fin dalla prima antichità ha cercato di inglobare gli animali all'interno del sistema morale e all'interno del sistema giuridico. Considerare l'animale come portatore di un valore in sé, al di là dell'utilità umana, considerarlo come qualcuno a cui qualcosa è dovuto non qualcuno a cui qualcosa è semplicemente concesso, è senz'altro una sfida, anche per la contemporaneità. Del resto, la difficoltà dell'impresa non giustifica un nostro deporre le armi. Anzi, forse è proprio la complessità di quest'impresa che continua a stimolare ancora oggi numerosi pensatori a interrogarsi sulla strada da percorrere per giungere a considerare l'animale come un tu, come un soggetto con cui entrare in una relazione non soltanto più rispettosa, ma anche più attenta a coglierne la bellezza e chissà perché no, forse anche la saggezza. Termina qua. [01:50:58] Speaker A: Grazie molte la dottoressa Massaro un tema complesso trattato da lei con grande cura e precisione grazie e abbiamo ancora giusto proprio due minuti nel caso ci fossero degli interventi o delle domande ok sì e poi vi ricordo che ci sarà un coffee break a cui sono invitati tutti i presenti. [01:51:31] Speaker J: Buonasera, volevo fare una domanda al dottor Germano, perché secondo me nella filosofia di Julien rimane qualcosa di aperto, ovvero Julien considera Dio come decoincidenza, quindi la verità stessa come decoincidenza, cioè come vita. E lo scarto che si apre tra la metafisica occidentale e orientale conduce ad un'etica metafisica in cui la verità non è, diciamo, ma si opera, diventa essa stessa la vita. Considerando la metafisica intrecciata con l'etica, lei non vede un rischio di sopravvivenza per la metafisica stessa che avrebbe inglobato dall'etica, nel senso che verrebbe meno quel supporto metafisico e teoretico della filosofia alle scienze particolari, per esempio? [01:52:31] Speaker G: Allora sì, sicuramente la riflessione di Julien è una riflessione aperta, come diceva, quindi non si conclude assolutamente con questi nuovi sondaggi. Io questo rischio sinceramente non lo vedo, cioè bisognerebbe distinguere, anche qui il termine metafisica è un termine talmente polisenso, è impossibile da ridurre a una sola determinazione che diventa difficile muoversi. Io vedo che piuttosto il rischio opposto, cioè il rischio magari di una teoresi eccessiva, di un rischio di mancare quell'ancoraggio diciamo alle scienze positive, chiamiamolo in questo senso. Quindi il tentativo che secondo me si può tentare di fare è quello di ancorare piuttosto questa riflessione che di per sé è potentamente metafisica, anche se di una metafisica oramai decostruita e decostruente, a quelle che sono le più insomma, le più recenti vie della ricerca. Mi pare, e infatti ho provato a farlo, non l'ho sottolineato comunque, di mettere in collegamento la riflessione di Julien sull'inaudito con le più recenti ricerche sociologiche di Rosa sul tema della risonanza. Io credo che potrebbero benissimo entrare in contatto, quindi una declinazione più teorica, teoretica, quindi in questo senso diversamente la vedrei più che metafisica anche, col rischio che ha di assolutizzare la categoria dell'altro, che è un rischio in cui insomma Giuliani sicuramente incorre, e ecco diciamo così raffreddarlo invece con questa vicinanza a quelle che sono le scienze positive, sociologiche che sia, non storiche. Ecco quindi io la vedrei in questi termini. Non so se ho risposto, se sono stato chiaro, ecco. [01:54:20] Speaker E: La sera mi ha affascinato moltissimo la sua esposizione sugli animali. Il problema è che ci dimentichiamo di Darwin. Noi abbiamo oltre il 98% di cromosomi che sono gli stessi degli scimpanze abunomi. Sappiamo che gli animali hanno empatia, sappiamo che gli animali sono molto organizzati e c'è un'ermeneutica. nei rapporti tra loro, dove si capiscono benissimo, si manda dei segnali e dialogano. Il problema, la domanda è questa, dipende di che animali parliamo. Se noi parliamo degli scimpanze bonomo, se parliamo del gatto di casa che mi viene a far le fusa, però c'è tutta una scala di animali. Darwin, non so se in una lettera o in un diario, scrive che quando la vespa inocula le uova dentro una larva e poi le uova si schiudono e gli animali mangiano la larva, non può più credere in un Dio creatore. E il problema è di che animali parliamo? Allora ci sono gli animali cosiddetti inferiori. Pensiamo a cosa abbiamo fatto del serpente nella Bibbia. Il serpente ha tutta la sua dignità e si trova benissimo con gli altri serpenti. Se scendiamo ancora più giù, pensiamo agli insetti. Le api che sono fruvolose hanno creato la Callipolis, una specie di Callipolis di Platone. Se scendiamo ancora, scendiamo agli insetti velenosi, agli insetti dannosi, senza gli insetti non ci sarebbe l'impollinazione. Se andiamo ancora più giù arriviamo ai batteri, ai virus, agli anellidi. sono animali o no, perché i virus sono furbissimi e pensiamo cosa ha fatto il Covid e come abbiamo dovuto difenderci da un animale così piccolo. Quando noi usiamo gli antibiotici facciamo uno sterminio di batteri con i vaccini facciamo uno sterminio, ci difendiamo. Dove arriva la considerazione, tra virgolette, empatica che noi possiamo fare verso gli animali? Questa è la domanda. Finché animali dobbiamo considerare. [01:56:41] Speaker G: Grazie. [01:56:42] Speaker H: Grazie per la riflessione perché è molto complessa ma molto stimolante. Non a caso ho sottolineato come Reagan nella sua opera dell'83 come dire restituisca l'idea di diritto a quegli animali che appartengono alla categoria di mammiferi e sono superiori a un anno d'età, perché soltanto con queste caratteristiche si può considerare un essere, un soggetto di una vita, è una sua prima formulazione evidentemente passibile di miglioramenti e di modifiche, però la domanda che lei fa è evidente, è evidente a Reagan come a noi tutti i giorni. Premetto che parlare di diritti animali è anche un po' una provocazione, lo dicevano le stesse professoresse Castignone e battaglia. Evidentemente è una provocazione, ma è una provocazione che ci stimola a riflettere in senso interspecifico e forse a riflettere anche in senso antropologico su quello che è l'essere umano, perché c'è il 98% di comunità genetica con alcuni scimpanzee, eppure rimane una radicale differenza tra l'essere umano e lo scimpanzee. La riflessione uomo non umano è una riflessione anche antropologica. Detto questo, io non ho una soluzione alla sua domanda. Penso che un'applicazione dell'idea di Hutchinson, non infliggere sofferenze non necessarie agli animali, potrebbe essere una buona regola, un primo passo per rispettare gli animali. Quindi è necessario mangiarli? Interroghiamoci. È necessario utilizzarli nella ricerca biomedica? Interroghiamoci, poniamoci delle domande e non semplicemente guardando la necessità per l'essere umano, ma guardando anche la necessità per come possiamo dal punto di vista dell'animale. Poi io risposte definitive non ne ho, penso che la sua sollecitazione arricchisca molto sia quello che io ho detto sia quello che le persone presenti hanno ascoltato, la ringrazio. [01:58:52] Speaker A: Comunque possiamo proseguire la discussione con i relatori anche durante il coffee break, non so se è necessario adesso chiudere. Facciamo questa pausa, per chi ha domande le rimandiamo fuori. Grazie, vi ringrazio.

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